D. - è stato recentemente pubblicato il suo volume "Nome in codice: Ulisse".
Si tratta sicuramente di una proficua occasione per i lettori di conoscere, nei limiti del possibile e del consentito, l'attività svolta dai Servizi attraverso l'ottica privilegiata di colui che ha vissuto le vicende narrate da protagonista.
E' naturale d'altro canto che desti attenzione e curiosità l'opera di colui che ha rivestito la carica di Direttore del SISMI dal 1984 al 1991, periodo nel quale numerosi avvenimenti di notevole rilievo internazionale hanno coinvolto il nostro Paese e le sue strutture informative.
Nell'assecondare questa esigenza di proporre la propria esperienza professionale e umana ad un pubblico più vasto, è stato difficile conciliare il desiderio di "raccontare" con le necessità di riservatezza proprie del mondo dell'intelligence?
R. (Martini) - Non molto. Fin dall'inizio ho tenuto ben presente due punti.
In primo luogo, essendo passati solo otto anni dal mio pensionamento, alcuni personaggi (anche Capi di Stato) erano ancora in posizione di rilievo e pertanto ho cercato di non creare situazioni imbarazzanti. Ho poi evitato di raccontare operazioni che potessero mettere in difficoltà o in pericolo le fonti e di "fare nomi", in particolare italiani, non avendo più a mia disposizione la documentazione del Servizio.
Il libro è certamente meno eccitante ma preferisco così.
D. - Dalla lettura del suo libro sembra emergere che i rapporti tra l'apparato dell'intelligence ed il "palazzo" non sempre sono stati agevoli. Nell'ambito di una politica per la sicurezza e nel contesto degli obbiettivi che questa dovrebbe perseguire, quali ritiene debbano essere i rapporti tra Servizi, potere esecutivo e Parlamento, e con quali modalità questi possono meglio definirsi?
R. - Nel complesso i miei rapporti con il Palazzo sono stati buoni. Le difficoltà, quando ci sono state, sono sorte perché i nostri politici in generale non sanno gestire i Servizi.
L'Esecutivo è il responsabile dei Servizi e ovviamente li deve usare solo per scopi istituzionali. I Capi dei Servizi, da parte loro, devono avere la grinta di pretendere una firma per le operazioni al limite della legge.
I Servizi trattano con il Parlamento solo attraverso il Comitato parlamentare per i Servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato che per legge è tenuto al segreto. Ci possono comunque essere audizioni in altre commissioni parlamentari ma è sempre opportuno informarne sia l'Esecutivo che il predetto Comitato parlamentare.
D. - Un passaggio importante del suo libro è riservato ai rapporti tra i Servizi e la Magistratura. Si tratta di un argomento sicuramente delicato e che assume connotati di notevole rilievo per coloro che, nelle strutture di intelligence, si trovano ad operare quotidianamente senza un adeguato "scudo protettivo" che li metta al riparo, nel perseguimento di fini istituzionali, dal coinvolgimento in procedimenti giudiziari.
Quali ritiene possano essere gli strumenti più idonei a garantire un corretto rapporto istituzionale con l'Autorità Giudiziaria e al contempo la necessaria tutela degli operatori dei Servizi?
R. - Ai miei tempi il problema non si poneva. Nessuno dei cinque Presidenti del Consiglio con cui ho collaborato ha mai obiettato su una richiesta di opposizione del segreto di Stato. Fino al caso Gladio nessun magistrato ha mai potuto visionare un documento del Servizio da me diretto se non a seguito di una apposita autorizzazione.
Oggi ritengo che una nuova legge 801 dovrebbe regolare i rapporti Servizi-Magistratura sulla base di due punti essenziali:
1) prevedere la costituzione di un'unica procura (che io individuerei in quella di Roma) che dovrebbe poter visionare gli archivi dei Servizi (come in Francia, Germania, Regno Unito) filtrando le richieste, mai generiche ma sempre legate a questioni specifiche, provenienti dalle altre procure italiane;
2) creare uno scudo protettivo per il personale dei Servizi che, in operazioni decise o approvate dall'Esecutivo, si trovasse coinvolto in procedimenti giudiziari.
D. - Viene osservato nel suo libro come, a seguito dell'evoluzione del contesto europeo seguita al crollo del muro di Berlino, tutti i Servizi occidentali siano stati costretti alla ricerca di un ruolo nuovo, all'individuazione di nuove minacce in scenari finora non prevedibili. In tale quadro, quale ritiene possa essere il ruolo futuro dei servizi italiani in Europa e quali prospettive ci sono per una "intelligence policy" a livello europeo?
R. - I Servizi italiani, nell'ambito della loro area di responsabilità, devono aggiornare gli obiettivi secondo i nuovi scenari e cioè, per quanto riguarda il SISDE, la sfera d'azione dovrebbe essere la sicurezza interna (crimine organizzato, terrorismo interno, terrorismo internazionale, controspionaggio, immigrazione clandestina) e la sicurezza industriale; per il SISMI, invece, quella relativa allo svolgimento di attività di supporto alla politica estera e militare cioè "intelligence" all'estero, proliferazione, terrorismo internazionale di provenienza estera, SIGINT non militare.
La sicurezza economico-finanziaria, che è un target emergente, dovrebbe essere assicurata da una unità operativa composta da SISMI e SISDE perché non riesco a individuare esattamente i limiti tra i due Servizi in questo ambito di competenza.
Molto più complessa e non ancora definibile è la questione degli scambi in seno all'Unione Europea e alla NATO, con l'adesione di nuove nazioni e in un contesto sempre più caratterizzato dalla globalizzazione. Esiste ancora un problema irrisolto di disseminazione di notizie, di tutela delle fonti e di fiducia reciproca.
Un recentissimo seminario di alto livello, che si è svolto ad Oxford, ha affrontato proprio questo problema senza peraltro arrivare a nessuna conclusione.
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